La richiesta di aiuto - La Congregazione dei Padri Mariani - Tajynsza

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La richiesta di aiuto

Richiesta di aiuto



Kazakistan, da luogo di deportazione a terra di speranza
Storia dei cristiani della steppa




La via che va dall’Europa al Kazakhstan oggi è percorribile nel tepore dei treni ben riscaldati. Per i deportati del 1946 e per quelli del 1941-42 questa era la direzione verso l’ignoto, in vagoni merci, che attraversavano la steppa nella morsa del freddo invernale, affrontando un viaggio di almeno tre settimane, così come possono ancora ricordare i sopravvissuti. Ma chi erano questi deportati? Erano i cosiddetti "nemici del popolo", intere famiglie costrette a lasciare tutto per essere destinate alla dimora forzata in territori desolati. Alcuni ricordano di aver potuto prendere con sé almeno parte dei loro averi, ad altri invece non veniva concesso di portare nulla. Le destinazioni venivano loro presentate come località paradisiache, nelle quali avrebbero potuto avere un lavoro e una vita dignitosi. Ma ben presto si sarebbero accorti della cruda realtà. prima evidenza di quell’incubo furono le numerose vittime del viaggio, i cui corpi giacciono ancora in fosse anonime lungo i binari del treno.

In Kazakhstan erano state predisposte alcune stazioni strategiche per lo smistamento dei deportati. Una di queste era Tajynsha. Condotti i deportati nel bel mezzo della steppa, si fissava un paletto in terra, a caso, ed era lì che quel gruppo avrebbe dovuto vivere da quel momento in avanti. D’estate venivano montate delle tende, nelle quali più famiglie vivevano insieme, e si cominciava a scavare dei pozzi per l’approvvigionamento d’acqua, ma nelle calde giornate estive bisognava pensare all’incombere dell’impietoso inverno. I -50°C si sarebbero fatti sentire fin troppo presto! Era dunque necessario procurarsi del combustibile, abiti adatti, riparare le abitazioni e sperare che non subentrassero le malattie che il gelo porta con sé.

Il Kazakhstan divenne la terra del dolore, terra d’abbandono e pianto, terra di coloro, che, costretti a lasciare tutto e tutti, finivano per morire da soli nelle sconfinate lande di una terra inospitale. I campi da lavoro erano una realtà abominevole, nei quali alla fatica seguiva quasi con certezza la morte. La deportazione di massa fu organizzata e sistematica. Uomini, donne e bambini vivevano in campi separati. Nei campi dei bambini si sono consumate le peggiori atrocità. I piccoli venivano educati all’odio dei propri stessi genitori, facendo sì che credessero di essere stati abbandonati perché non voluti e non amati. Se riuscivano a far recapitare una lettera alla mamma e al papà, si limitavano a scrivere: “Sono vivo”. Molti sopravvissuti parlano malvolentieri della deportazione, portando ancora negli occhi il dolore e la cruda desolazione di quei giorni terribili. Altri invece tengono a sottolineare di come sia stata la sola fede e nient’altro a dar loro la forza di andare avanti. Ancora mi pare di sentire i racconti della mia nonna, sopravvissuta alla deportazione del 1936. Ella, con particolare affetto ricordava lo zelo e la dedizione dei sacerdoti, anch’essi deportati, i quali in quelle condizioni critiche spendevano tutte le loro forze al servizio dei fratelli.

Tutte le testimonianze sono accomunate da tristi analogie: questi interminabili viaggi in treno, la morte dei cari, la solitudine. Una condizione terribile ancor’oggi testimoniata dalla quarta generazione dei deportati, che nel tener salde le proprie tradizioni resta monito imperituro di una triste epoca.

Il Kazakhstan moderno è uno stato che accoglie in sé 120 nazionalità, che convivono pacificamente tra di loro, sebbene sussistano nel dialogo alcuni problemi. La religione costituisce una delle maggiori difficoltà. L’appartenenza ad un determinato credo religioso viene immediatamente legata alla nazionalità: i polacchi sono cattolici, i russi ortodossi e i kazaki sono musulmani. Per grandi linee questo corrisponde al vero, se non fosse per il gran numero di matrimoni misti, che hanno nettamente sfumato i limiti tra le varie etnie. Il fenomeno religioso viene in definitiva trattato molto superficialmente, dove la frase "Tanto Dio è lo stesso" diviene patrimonio comune di tutte le discussioni. Questa asserzione è senza dubbio vera, ma i risvolti morali sono preoccupanti: molti matrimoni misti vengono meno perché una delle parti si oppone alle usanze dell’altro o perché, sempre più spesso, il genitore non cristiano si oppone al battesimo del bambino, oppure la celebrazione delle nozze in chiesa viene rifiutata da uno dei coniugi. Questa incertezza è il risultato di anni di ateismo imposto dal regime, che non riuscì a sradicare la fede dal cuore dei credenti, ma non permise che i sacerdoti indirizzassero opportunamente i fedeli. Ciò che apprendevano, lo imparavano grazie alla famiglia, fonte instancabile della fede nella comunità.

I cattolici che vivono nel paese sono perlopiù i discendenti dei deportati polacchi. La fede è stata loro trasmessa dalle vecchie generazioni. Attualmente in Kazakhstan abbiamo libertà di culto: le chiese sono aperte ovunque, anche nei villaggi più remoti, dove i sacerdoti si recano da pendolari per prestare il loro servizio. Per la maggior parte si tratta di missionari, ma vi sono anche giovani vocazioni locali. Molti hanno appreso la fede sulle ginocchia della propria nonna, ma laddove il sentimento religioso non era bene radicato la propaganda comunista ha lasciato le sue tracce. Molti, pur ammettendo di credere nell’anima, ritengono gli atti di culto inutili.

Probabilmente la maggior parte dei cattolici è proprio concentrata nel nord del paese, dove sorgono complessi parrocchiali di una certa grandezza. In molti paesi della steppa, però, la fede dei singoli resta conosciuta solo a Dio, che nel silenzio porge l’orecchio ad un rosario recitato da una nonna in un vecchio casolare ai confini del mondo. Spesso si rivolgono ai sacerdoti soltanto quando bisogna celebrare le esequie, pregando di presenziare alla funzione, non necessariamente celebrando, ma anche solo per gettare un pugno di terra sulla bara del defunto. Molti, anche non credenti, rispettano le feste liturgiche principali, probabilmente solo per consuetudine. È davvero raro trovare una fede che si spinga oltre.

La missione in Kazakhstan non è semplice. La religione più diffusa è l’Islam e dunque le parrocchie sono spesso vuote o poco frequentate. I cattolici sono davvero una minoranza esigua nel paese e il nostro compito è cercare di riportare quei pochi che ci sono alla fede della chiesa. Ciò avviene soprattutto grazie all’assistenza di persone di buona volontà, che collaborano con noi. La gente, abituata ad anni di indifferenza pastorale, accoglie con grande gioia e rispetto il sacerdote, animata dal desiderio dell’incontro con Dio nella liturgia. Talvolta, quando per motivi climatici o organizzativi, dato il basso numero di religiosi, il sacerdote non può celebrare la messa, i fedeli si riuniscono comunque da soli per pregare. Spesso l’immensità della loro fede ci spiazza del tutto, ci fa quasi vergognare per la nostra piccolezza, per l’inadeguatezza della nostra condizione di servi.

Il lavoro si divide tra sacerdoti diocesani, religiosi, tra cui c’è la nostra comunità dei Padri Mariani, e suore delle varie assemblee. Il lavoro dei sacerdoti consiste principalmente nel sevizio liturgico (la santa messa) e l’amministrazione dei sacramenti, a seguire la predicazione della parola di Dio e attività di assistenza alle singole persone o ai gruppi. Le suore si occupano della catechesi dei giovani, della visita agli ammalati, l’assistenza dei disabili e la cura di ogni tipo di solitudine.

La nostra parrocchia di Tajynsha ha una gloriosa storia, scritta da sacerdoti di singolare virtù, che vi hanno lavorato prima di noi. Tra questi spiccano le figure di padre Kuczynski e padre Kaszuba, instancabili testimoni di fede e umanità in tempo di persecuzione. Affatto intimiditi dai campi di lavoro, si dedicarono totalmente al servizio dei fratelli secondo la loro vocazione, rientrando così tra i nomi più illustri della storia della chiesa del Kazakhstan.

A seguire di distinse per la sua opera padre Jan Pawel Lenga MIC, della congregazione dei Padri Mariani. All’inizio svolgeva il suo ministero in una piccola cappella, ma nel 1988, dopo aver ricevuto un permesso da Mosca, fondò l’attuale chiesa dedicata alla "Sacra Famiglia". Collaborarono alla costruzione persone provenienti da ogni zona della regione, i quali, animati dallo Spirito, si accostarono anche ai sacramenti, non limitandosi a costruire il tempio materiale, ma riunendosi in una comunità. Jan Pawel Lenga MIC sarà ordinato vescovo del Kazakhstane di tutta l’Asia centrale dal Sommo Pontefice e il 3 settembre di quest’anno è stato insignito dal Presidente della Repubblica della croce al merito, per aver salvato numerosi deportati polacchi durante l’opera di denaturalizzazione.

Negli ultimi anni hanno lavorato nella parrocchia dei sacerdoti diocesani. Nell’agosto 2011 sono ritornati due padri mariani, padre Stefan Wysocki ed io, padre Alexey Mitsinskiy. La mia storia comincia in  Karaganda, qui in Kazakhstan, dove nacqui nel 1983. La mia bisnonna e la nonna erano di nazionalità polacca, entrambe deportate nel 1936. Sono dunque cresciuto tra i racconti del duro periodo della deportazione, abituato alla gratitudine verso quanti hanno permesso, con il loro sacrificio, che la fede in Cristo giungesse fino a noi. Fu mia nonna ad iniziarmi alla fede cattolica. All’età di 17 anni fui accolto nella comunità dei Padri Mariani e partii in quello stesso anno per la Polonia, dove avrei concluso la mia formazione religiosa, Nel 2002 ho emesso i voti temporanei e nel 2008 sono divenuto membro effettivo della comunità con i voti perpetui. Il 12 giugno 2010 sono stato ordinato sacerdote nella mia parrocchia di Karaganda, dove sono stato subito inviato per il mio servizio pastorale. Un servizio molto fruttuoso, alimentato dalle numerose testimonianze di fede degli uomini e delle donne a me affidati. Il loro amore mi ha insegnato tanto. Rammento il caso di una donna anziana, nonna di un mio caro amico, la quale volle incontrarmi in punto di morte per ricevere i sacramenti. Ella, prendendomi la mano e stringendola alla sua guancia, mi disse: “Ricordo di quando mi chiedevi di pregare per te, per la tua vocazione. Non ho mai smesso di farlo e non smetterò neanche in cielo di pregare per il nostro sacerdote". E così, con la mia mano nella sua, si è addormentata pian piano. Di momenti così ne ho vissuti molti, momenti in cui il cuore gioiva del sacerdozio in Cristo, al quale, per grazia divina, mi è stato dato modo di partecipare.

Da quattro anni lavorano qui in Tajynsha anche le suore di “Maria Madre della Misericordia”, le quali vivono in una casetta piena di disagi, con il tetto che perde acqua e senza fognature. Durante l’estate la situazione non è critica, ma d’inverno con 40° sottozero sarà piuttosto disagevole.

Percorrendo le lande desolate dell’immensa steppa, giungiamo a quattro piccole cappelle, unico riferimento per gli abitanti dei villaggi, che al suono della campana, noncuranti del vento tagliente, vanno a rendere culto al loro Dio. Le strade sono completamente dissestate e talvolta è una vera impresa farsi spazio tra la neve e le profonde buche.

Il lavoro in Kazakhstan, sebbene non possa vantare folle di fedeli, dà una gioia immensa, qui dove il desiderio di Dio, di conoscere Cristo e di vivere il suo vangelo diviene la preghiera più bella che si possa innalzare. La felicità è nei nostri cuori. Noi siamo esattamente laddove Dio ci vuole e ciò rende questo posto il più bello al mondo.

Ora la chiesa del Kazakhstan ha bisogno del vostro aiuto, perché la nostra missione possa svolgersi in maniera efficace, raggiungendo finanche l’ultima capanna del luogo più remoto della steppa. Innanzitutto ci preme la riparazione della casa, perché il rigido inverno non piombi su di noi, mettendo in serio pericolo la nostra salute e impedendoci di portare a termine i nostri compiti. In particolare l’impianto di riscaldamento necessita di una revisione generale. Non si tratta di qualcosa di accessorio: potrete ben comprendere che con 40° sottozero sarebbe impossibile partecipare alla messa e accedere alle nostre attività di assistenza senza una caldaia. Come detto, anche la casa delle suore ha bisogno di riparazioni urgenti, che stiamo cercando di attuare con le nostre stesse forze, ma non basta.

Per questo facciamo appello alla vostra generosità, perché con il vostro aiuto possiamo continuare a portare il Vangelo fino agli estremi confini della terra, consapevoli che la fede può tutto. Quando mi trovavo a Lichen, in Polonia, per la mia formazione sacerdotale, assistetti personalmente all’inaugurazione del Museo intitolato a padre Józef Jarzebowskij MIC, nel quale sono stati raccolti numerosi reperti relativi alla deportazione. Tra questi uno in particolare mi ha colpito. Si tratta di una cartolina ricavata dalla corteccia di una betulla, che una bambina, reclusa nel campo, indirizzava alla propria mamma in occasione della Pasqua: “Mia amata mammina, nel giorno della Risurrezione mi unisco a te nella preghiera e chiedo a Dio di benedire te e i miei cari. Bacio le tue mani amate. Janka”. La fede è sopravvissuta anche all’austerità dei campi di lavoro. Ai reclusi poterono strappare tutto, ma non la speranza nel risorto. Sulle vestigia di quei testimoni illustri, che a migliaia si spensero tra le fredde mura delle prigioni sovietiche, è stata fondata la gloriosa chiesa kazaka, ancora viva, ancora fervente in Cristo. Noi siamo qui, non dimenticateci! Ai confini della steppa, qui dove cielo e terra si incontrano all’orizzonte, diamo una speranza a quanti, levando le mani, gridano: “Mostraci il tuo volto, Signore”.


p. Alosza Micinski MIC
(Alexey Mitsinskiy)


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Grazie per la vostra generosità. Che Dio vi benedica e vi protegga.

 
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